Secondo una recente sentenza della Cassazione, gli insulti su Facebook possono rappresentare un reato di diffamazione. Anche se gli insulti sono anonimi.

Una sentenza destinata a cambiare un po’ la “leggerezza” dei contenuti che spesso si leggono sulle piattaforme social. La Cassazione ha stabilito che, anche gli insulti avvenuti in cerchie ristrette degli amici su Facebook sono passibili di denuncia e, quindi, di condanna (in caso di reato) per diffamazione. La sentenza è ovviamente estendibile alle altre piattaforme che per “mission” si sovrappongono al social network di Mark Zuckerberg.
Il caso. Tutto ha inizio dalla denuncia di un finanziere che, via facebook, era stato offeso pubblicamente da un maresciallo di San Miniato sempre della Guardia di Finanza. Il graduato aveva sostenuto pubblicamente di essere stato “scalzato” dal nuovo arrivato definito “raccomandato e leccaculo…” con tanto di frase volgare nei riguardi della moglie di quest’ultimo.
In seguito alla denuncia presentata dal finanziere offeso, la sentenza di primo grado aveva riscontrato gli estremi per una condanna di diffamazione pluriaggravata. Il ricorso in appello, però, aveva di fatto annullato la prima sentenza motivando la impossibilità di ricorrere all’autore del contenuto. La Cassazione, infine, ha ribaltato la seconda sentenza chiedendo un nuovo procedimento contro l’imputato reo in primo grado.
E’ evidente che il caso rappresenterà un precedente per tutti gli eventuali procedimenti di questo tenore e che, dalla casistica, potrebbero moltiplicarsi le denunce per questo reato che ha come aggravante la diffusione del mezzo. Da tutto questo giunge, seppure non ce ne fosse bisogno, che il linguaggio anche su mezzi che in qualche modo possono mantenere l’anonimato (si è davvero anonimi su Internet?) , deve essere sempre contenuto e non volgare anche perché, come si suol dire, la libertà dell’individuo finisce lì dove inizia quella dell’altro. E poi, parafrasando un detto latino, “verba volant” e “scripta manent”.
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